Fabio Bellumore, Responsabile Ufficio Stampa di Amref, si è recato in Kenya per una missione di monitoraggio dei progetti in corso. Quello che segue è il suo emozionante diario di viaggio.

2 giugno 2016 - Dove finisce il mondo. Lì ti voglio portare

Non può esserci il mondo oltre tutto questo. Me lo sono ripetuto tante volte lungo quella strada sterrata con l'Africa ai bordi. Un'Africa tutta impolverata. L'ho detto dopo aver visto i chilometri che fanno i bambini in divisa scolastica, che camminano ai lati delle strade, prendendosi tutta la polvere che alzano i motorini e le auto. L'ho detto dopo aver visto una donna caricare taniche d'acqua in groppa ad un asino, acqua per nulla limpida. L'ho detto quando abbiamo superato un carro in legno trainato da due buoi. L'ho detto ancora altre 100 volte, fin quando anche la nostra stoica jeep si è fermata.

Solo le mucche e gli uomini possono arrivare laggiù, vicino al letto del fiume mi dicono. E proprio nel letto del fiume un uomo e una donna riempivano delle taniche d'acqua. Acqua che attingevano da una buca grande quanto un hula hop. La gente fa 10 km per prendere questa acqua mi dicono. Eccolo il punto esatto in cui finiva il mondo: 10 km per una buca d'acqua grossa quanto un hula hop.
Poi però un canto, un gruppo festoso di donne ci attira a sé. Ci aspettava. Le seguiamo e ci portano ad un piccolo, semplice pozzo d'acqua pulita. Intorno una trentina di persone. Sono entusiaste. Qui in Kitui in cima alla lista dei desideri del 90% delle persone c'è l'avere acqua pulita. Loro ce l'hanno e ridono. Ride anche la natura intorno a loro. Ci dicono che qualche anno fa qui non c'era né una pianta di mais né una di papaia.

E così proprio laggiù, accanto ad un fiume dormiente, laggiù dove pensavo finisse il mondo la vita rompe gli argini e arriva dove non avrei detto. Nel posto più lontano dove mai mente umana avrebbe potuto spingersi. La mia mente. Non certo quella di Peter - capo progetto in Kitui per Amref - che ha scovato anche questo posto.
Bravo Peter, hai trovato il posto più isolato del mondo. Dove credevo che finisse il mondo, lì ti vorrei portare. Perché il sapore della papaia cresciuta lì non ha il sapore di qualcosa che finisce ma che inizia.

3 giugno 2016 - Oggi ti porto a ballare

Dovrai mangiare dell'altra polvere prima di arrivare altrove, quaggiù in Kenya.
Una donna ci apre la sua casa. O meglio, la sua casa è, in tutti i sensi, già spalancata. La cucina a vista, una costruzione in mattoni rossi dove dormire e un'altra dove rimettere gli attrezzi. Sabina, che ogni giorno percorre 10 chilometri per raggiungere la prima fonte d'acqua pulita, oggi ha voglia di suonare e cantare. Non credo lo faccia solo perché sono arrivati gli operatori di Amref a farle visita. Il suo spirito è allegro, glielo si legge negli occhi. Prende il suo strumento, si siede fuori dalla porta della sua casa e suona. E canta. Come aveva fatto un'ora prima con tutta la comunità. Dà il ritmo e ci fa ballare.

Se ci fosse un posto in cui vorrei portarti stamattina, domani, e sempre ti porterei sulla terra rossa davanti alla casa di Sabina. Dove il dolore di questo posto sperduto del Kenya, in cui ho creduto finisse il mondo, fa a botte con la dignità di una donna che nulla chiede. E non fa più così tanto male. E sarebbe un miracolo se quel giorno in cui ti porterò qui con me, il canto di Sabina richiamasse la curiosità di decine di bambini in pausa da scuola. Pronti a far festa a suono di quella musica.
A noi stamattina quel miracolo è capitato.

4 giugno 2016 - Per nulla al mondo ti porterei quaggiù, nella baraccopoli di Dagoretti

Se l'inferno esiste assomiglia molto a quello che ho visto stamattina. Lì non ti porterei. O forse si. A patto che tu mi faccia una promessa. Perché a Dagoretti, un sobborgo di Nairobi, ho visto la vita malamente accalcata e fangosa. Dannata, non per colpa di chi la vive, o magari solo in parte. Dannata e stop. "Devastante" ha detto un compagno di viaggio italiano, che come me ha preso dei pugni allo stomaco che non se ne vanno ancora. Ho respirato violenza, sporcizia. Ho visto un ammasso di rifiuti tirato su dal braccio di una gru, mentre l'operatore di Amref - che visita tre volte a settimana le famiglie di questa baraccopoli - mi diceva "i bambini sono sempre lì sopra, a recuperare materiali che poi rivendono".

Sapevo, ma l'odore che quella gru smuove non agisce solo sull'olfatto e sul mio stomaco, ma anche sulle mie corde vocali. Urlo in silenzio. Più tardi, ripensando a tutto questo, incrociando una colonna di cemento ho avuto la netta sensazione che se le avessi dato un colpo l'avrei buttata giù. Non sono mai sicuro di nulla, ma in quell'attimo, non so perché, ero certo ce l'avrei fatta. Avevo negli occhi non solo quelle scene, ma i bambini e ragazzi di Dagoretti incontrati nel Centro di Accoglienza di Amref. Con loro avevo giocato a calcio, mi ero fatto mettere dei fiori tra i capelli, avevo sentito la loro musica fatta con strumenti di riciclo. Mi avevano accarezzato fino allo sfinimento, li avevo visti cucinare per i più piccoli e fare molto altro di bello. Il contrasto era troppo forte e quella colonna l'avrei buttata giù.

Per nulla al mondo ti porterei quaggiù. Lo farei ad una sola condizione. Una sola promessa. Solo se mi dicessi che non smetterai mai di sperare. Promettimi ora, che tu non abbia a ripensarci. Promettimelo perché ho delle ragioni che domani, sempre qui su questo diario, ti mostrerò e perché non voglio rimanere solo a fare i conti con i cazzotti allo stomaco che mi hanno ammaccato. Perché non voglio prendere a pugni né una colonna di cemento e nemmeno il mondo.
Promettimi che sarai accanto a me, Promettimi speranza.

Ti presento la mia famiglia. In Kenya.

"É tutto così devastante, ma noi siamo davvero belli e forti"
L'ho detto chiudendo l'ultima porta del Centro di Accoglienza di Dagoretti, lasciandomi alle spalle i tanti ragazzini e bambini incontrati. Tra loro anche quei quattro occhi dolci che mi avevano costretto con insistenza ad andare a vedere i pesci e le rane negli scoli delle acque reflue della struttura. È l'ultimo giorno, e ciò che abbiamo visto, soprattutto nelle ultime ore ci ha segnato, per sempre credo. Ma il dolore non è l'unico compagno di questi ultimi attimi in Kenya. Ci sono anche delle ragioni di speranza, una speranza che ha nomi e cognomi. Sono i nostri operatori sul campo: belle menti, uomini e donne instancabili. Sono queste le ragioni che non mi fanno crollare oggi.

C'è Peter l'ingegnere che in Kitui - area che muore di sete e che ha bisogno di acqua pulita - supervisiona il funzionamento di oltre 110 pozzi e dei comitati di gestione collegati. Ogni tre mesi controlla la bontà delle acque con analisi specifiche.
C'è Jackson e quella faccia da buono. Appena vede un bambino gli mette in mano la macchina da presa e gli chiede di girare. Figlio e maestro di quell'attività di Amref che è il video partecipato, nata per coinvolgere e insegnare una professione ai ragazzi di strada.
C'è Steve, faccia da duro, ne ha viste e vissute tante. Alunno di Jackson che appena può piazza la sua macchina fotografica al collo di altri ragazzini. Il circolo virtuoso continua.
E poi c'è Fred, l'uomo che macina chilometri e chilometri sempre col sorriso in faccia. Senza di lui e quella jeep, che cura come un padre, noi di Amref non arriveremmo troppo lontano.

Sono solo alcuni componenti della nostra famiglia che alla fine di questo viaggio volevo presentarti. Sono le ragioni di quella promessa che mi dovevi: non smettere mai di sperare.