Riportiamo la testimonianza di Tommy Simmons, fondatore di Amref Health Africa - Italia, che racconta alle proprie figlie le epidemie che hanno segnato la storia africana.

Le epidemie hanno sempre contrassegnato la storia dell'Africa e naturalmente hanno anche contrassegnato la storia di Amref Health Africa e di tutti coloro che ci hanno lavorato.

La prima epidemia che ricordo bene fu una fiammata di colera nel Kenya centrale. Era il gennaio del 1986 (ricordo la data perché in quei giorni celebrai il mio trentesimo compleanno da solo ad una stazione di benzina lungo la strada che collega Nairobi e Mombasa, sorseggiando una birra tiepida) e dato che stavo riflettendo sulla possibilità e sull'opportunità di aprire una sede di Amref in Italia, ero andato nella cittadina di Kibwezi per cercare di capire l'impatto del colera sulla popolazione locale e sull'ospedale e cosa si stesse facendo per arginarla.

Trovai una situazione avvilente. L'immagine più forte che rimane a mente è quella di una persona che varcava la soglia del cancello dell'ospedale in una carriola sospinta dai famigliari stremati da due giorni di cammino. Non sono riuscito a capire se si trattasse di un uomo o di una donna, perché del corpo del paziente non rimanevano letteralmente che pelle ed ossa. Fu allora che imparai cos'è un cholera bed: è una branda con un buco in mezzo per permettere il drenaggio dei fluidi del corpo, con sotto un secchio per raccoglierli. E fu allora che iniziai a capire i concetti e i meccanismi della public health e di come le abitudini della gente possano minare la salute della collettività. La malattia infatti si stava diffondendo nella zona perché i morti venivano lavati dalle famiglie e poi sepolti senza precauzioni e perché nella zona c'era un fiume dove la gente si lavava e a volte drenavano le loro feci, infettando tutti coloro che a valle prendevano dal fiume l'acqua che poi bevevano. L'unico modo per arginare subito la malattia era di cambiare i comportamenti.

Fu un'esperienza fondamentale durante la quale imparai molto (e mi convinsi ancora di più che si poteva e doveva fare qualcosa anche dall'Italia) e fu anche difficile, ché imparare a conoscere queste realtà è abbastanza dura, anche perché era la prima volta che passavo qualche giorno da solo in una situazione del genere e ancora non avevo ben sintonizzato l'udito con i suoni locali e capivo con difficoltà l'inglese stentato col quale mi spiegavano le cose. In più stavo nell'unico e vuoto alberghetto locale ancora aperto, ché era l'unico con servizi igienici ritenuti sufficienti dalle autorità e sentivo un forte senso di solitudine.

Il colera l'ho poi rivisto e seguito in tante circostanze e situazioni diverse (fa particolarmente paura quando esplode nelle baraccopoli) ma lo ricordo bene anche a Loitoktok, sotto al Kilimanjaro, anni dopo quella prima esperienza. Ero andato a Loitoktok a monitorare la situazione con la emergency relief team di Amref, portando medicinali che in loco non c'erano, e trovammo i pazienti accampati fuori dall'ospedale (per evitare contagi), sdraiati in terra sotto alle acacie, con le flebo appese dai rami spinosi. In sostanza l'epidemia si era diffusa perché nessuno nella zona aveva servizi igienici e nessuno poteva attingere acqua da fonti protette e la situazione era dunque potenzialmente esplosiva anche per il futuro. Oltre a fornire medicinali e attuare una campagna di educazione all'igiene, decidemmo dunque di affrontare il problema alle sue radici e di avviare nella zona un progetto idrico e di igiene e nel corso degli anni successivi trasformammo la situazione su tutto il territorio. Costruimmo centinaia di pozzi e acquedotti e latrine con un intenso sostegno della comunità che si era fortemente spaventata con l'arrivo del colera, così riducendo tutte le malattie trasmesse dall'acqua, riducendo il carico di lavoro soprattutto delle donne e i bambini che passavano ore ogni giorno a trasportare taniche di acqua contaminata e dunque anche favorendo l'accesso all'educazione. Da una brutta crisi riamo riusciti a far emergere tante cose positive.

La seconda epidemia davvero forte che seguii fu naturalmente quella dell'HIV/aids, che iniziò quando già lavoravo con Amref da qualche anno. Ma all'epoca scelsi di non intervenire (credo ancora fosse la scelta giusta) perché da ogni parte arrivavano ingenti risorse per combattere l'HIV (perché faceva paura anche ai paesi ricchi) mentre mille altre problematiche restavano trascurate. Ovviamente imparai molto sull'epidemia e il suo impatto, ché l'epidemia ha toccato ogni aspetto delle società, ma concentrai il nostro lavoro su altre tematiche neglette come l'acqua e l'igiene, i ragazzi di strada, i bisogni chirurgici nelle zone più remote, l'accesso all'educazione, la formazione di operatori sanitari laddove non ce n'erano, allestendo programmi di lungo termine nell'ambito di crisi croniche come quelle del Sud Sudan e del Nord Uganda. Se si pensa solo alle emergenze e si trascurano le cose essenziali allo sviluppo, le emergenze tendono a ripetersi!

La terza epidemia che ricordo chiaramente è il morbillo in Nord Uganda. Per motivi di lavoro ero in visita conoscitiva di un grande (e fondamentale) ospedale gestito da italiani nella città di Gulu e nel reparto pediatrico scoprii che si stavano arrabattando per gestire qualcosa come 500 bambini malamente toccati dal morbillo, molti dei quali stavano morendo. Alla radice del problema c'era il fatto che all'epoca praticamente tutto il Nord Uganda era paralizzato dal conflitto con l'Esercito di Liberazione del Signore, tutta la popolazione viveva in campi protetti e gli aiuti si focalizzavano su quanto era fattibile e urgente: l'alimentazione e la sanità d'emergenza, l'accesso all'acqua pulita (necessità che anche noi cercavamo di affrontare). Per qualche motivo idiotico che non ho mai capito, nonostante la presenza di molte associazioni sul territorio, le campagne di vaccinazione dei bambini erano state sospese e malattie pericolose come il morbillo di stavano diffondendo nei tre distretti di Gulu, Kitgum e Pader, che avevano di gran lunga i tassi di copertura più bassi di tutta l'Uganda. Era una situazione scandalosa ma per fortuna riuscimmo a trovare a breve dei finanziamenti e potemmo mettere su un sistema di vaccinazioni con operatori locali sostenuti dalle autorità e nell'arco di due anni abbiamo eliminato del tutto i focolai di morbillo e portato i tre distretti in cima alla lista delle zone del paese con maggior copertura. E fu addirittura relativamente semplice, ché invece di dover andare a raggiungere le singole famiglie in zone remote, dato che erano tutti ammassati nei campi protetti" (protetti in parte dalla violenza ma non dalla povertà) erano facilmente accessibili. Servivano solo dei finanziamenti e la buona volontà di affrontare il problema. Nel medio periodo eliminare il morbillo è costato meno del costo della gestione delle sue epidemie.

La quarta epidemia memorabile che ho seguito da vicino fu l'Ebola che esplose sempre a Gulu nel 2000 (ma per mia fortuna in quel periodo non ero lì). Quando emersero i primi casi riuscimmo a trovare le risorse per contribuire ad un ampio programma di educazione sociale mirato al contenimento della malattia (mantenimento delle distanze, funerali sicuri), aiutando a limitarne i danni. Tutti i nostri colleghi in loco furono toccati indirettamente dall'epidemia e dato che eravamo in contatto costantemente fui davvero scioccato dal modo improvviso e radicale in cui cambiò il loro quotidiano.

Oggi sto seguendo da vicino un'epidemia di epilessia che sta falcidiando le vite di migliaia di bambini in Sud Sudan. È una malattia del sistema nervoso che si pensa viene trasmessa da un moscerino e anche se non è del tutto curabile è prevenibile prendendo un'unica pillola l'anno - ma il retaggio di 40 anni di guerra civile in Sud Sudan, la mancanza di un servizio sanitario e di operatori, gli alti tassi di povertà e analfabetismo hanno finora impedito che questa pillolina fosse disponibile e distribuita a tutti e che i farmaci per il controllo dell'epilessia potessero essere messi a disposizione di chi li necessità (ma per fortuna con un finanziamento italiano ora questo dramma potrà essere almeno in parte affrontato).

Nel corso degli ultimi 35 anni ci sono state molte altre epidemie e fiammate di malattie, ma queste sono quelle che ricordo con maggior chiarezza - salvo la peggior malattia di tutte: le epidemie di violenza e cecità umana. Ho visto l'impatto della violenza in Etiopia, Somalia, Sud Sudan, Ruanda, Uganda e Kenya e so per certo che i danni causati dalla stupidità umana e dalla politica degenerata sono di gran lunga superiori all'impatto che possono avere le malattie. Nel corso degli anni ho visto letteralmente milioni di profughi e sfollati, gente violentemente cacciata dalle sue case e le sue terre e finita in campi inadeguati, con vite al limite della tolleranza. Il loro destino è spesso terribile dato che non hanno più nulla, neanche un paese nel quale tornare, e sono esposti a tutte le calamità possibili, compreso l'abbandono da parte di chi potrebbe aiutarli.

Ripensando a tutto ciò mi rendo conto di quanti sforzi sono stati fatti per contenere le epidemie africane " e anche quanti successi sono stati conseguiti. E questo è senz'altro rincuorante. Ma l'epidemia di Coronavirus che ormai si sta diffondendo anche nel continente africano fa molta paura, soprattutto pensando ai tassi preesistenti di malattia nel continente, una diffusa cattiva alimentazione, sistemi sanitari ed economie fragili. I rischi per il continente e la sua gente sono molto gravi e si sommano a quelli che devono affrontare da anni. Ci sarà bisogno di molto sostegno per limitare e lenire gli effetti di questa catastrofe.

Ora sono in Italia, essendo rientrato dal Kenya due settimane fa, e mi sono chiesto molto cosa potrei fare per contribuire a limitare i problemi anche qui ma la situazione è tale che, non essendo un medico o un amministratore pubblico, c'è ben poco da inventarsi. Detto questo mi è ben chiaro cosa posso fare a titolo personale: devo restare sano, ché i servizi sanitari hanno già ben altro a cui pensare; devo assicurarmi di non prendere il virus, ché ci sono già troppi contagiati; e devo assicurarmi di non contribuire alla sua diffusione, perché è l'unico modo per riportare le cose verso una nuova normalità e prevenire sofferenze inutili.