«Aiutiamoli a casa loro è uno slogan che non solo dobbiamo rivendicare ma del quale dovremmo chiedere che se ne rispetti il significato originario, quello che come Ong presente e attiva in Africa da anni avevamo dato a queste parole: supportare e implementare tutti gli elementi strutturali che rendono possibile migliorare le condizioni delle popolazioni africane, perché la migrazione sia una scelta, una chance, e non un obbligo. Aiutarli a casa loro non vuol dire chiudere i porti ed erigere muri, anzi…». Mario Raffaelli, presidente Amref, non usa mezzi termini di fronte alle politiche securitarie e alla narrazione mainstream del fenomeno migratorio.

«La gravità della politica di Salvini " dichiara Raffaelli - consiste nel fatto che ha drammatizzato una situazione nel momento in cui non c'è nessuna emergenza, impedendo di affrontare il problema in termini razionali. Moralmente, tutta la polemica sui salvataggi in mare si qualifica da sé. Mentre bisognerebbe focalizzarsi sulla necessità di inserire un percorso legale di entrata nel paese, questa sì che sarebbe la risposta migliore per contrastare gli scafisti: il problema, cioè, è la legge Bossi-Fini, che rende impossibile un arrivo legale».

Nonostante la mancanza di una reale emergenza, la percezione della questione migratoria resta in testa alle priorità " e alle paure " degli italiani. «Certo, è proprio la sottovalutazione di questo disagio che ha reso fertile il terreno per una narrazione totalmente deviata di questo fenomeno " ammette Raffaelli - . Il disagio esiste e bisogna prenderne atto, perché quando qualcuno riesce a parlare alla pancia bisogna rispondere anche al cervello. La percezione del fenomeno migratorio va capita. Banalmente, se è vero che la quota di migranti sul totale della popolazione è pari all'8-9 per cento e quindi è facilmente gestibile, si pensi a dove vivono però queste persone. Spesso nei quartieri più disagiati, dove il rapporto magari è di uno a tre e dove la competizione purtroppo è tra ultimi e penultimi».

Dunque ragionare alle radici delle migrazioni cosa significa? «Vuol dire non limitarsi ai salvataggi in mare ma spiegare e soprattutto agire sul prima e sul dopo, sulle cause dei flussi, la stabilità, la povertà, la pace e la guerra nei Paesi africani, nel medio-lungo periodo, oltre che sulle modalità virtuose per affrontare il problema dell'accoglienza e integrazione. Questo comporta anche rivedere le regole del Regolamento di Dublino e occuparsi della suddivisione delle responsabilità dell'accoglienza tra i vari Paesi europei».

Torniamo, quindi, all'Africa, del quale Raffaelli è profondo conoscitore e dove proprio in queste settimane stanno accadendo svolte epocali, a cominciare dall'accordo di pace tra Eritrea ed Etiopia.

«Anzi tutto dovremmo parlare di Afriche e non di Africa, vista la complessità delle dinamiche e delle situazioni " spiega Raffaelli - Ciò detto, proprio il caso Etiopia-Eritrea è un esempio classico di possibile intervento a monte, da parte dei paesi e dei governi europei. Lo dico polemicamente: l'Europa avrebbe potuto fare molto, mentre si limita a interventi di peacekeeping. È il caso della Somalia, dove sostieniamo l'operazione AMISON, senza risolvere un conflitto endemico e storico che contribuisce a un sistema regionale di insicurezza, dal quale non a caso scappano migliaia di persone (è un'operazione di peacekeeping dell'Unione Africana, stabilita nel 2007 con un mandato iniziale di 6 mesi, prolungato nel corso degli anni. I Paesi che contribuiscono alla missione sono Uganda, Kenya, Burundi, Somalia, Etiopia, Gibuti e Sierra Leone. Attualmente 22mila soldati dell'Unione Africana si trovano in Somalia, entro il 2020 è previsto il loro ritiro definitivo dal Paese africano, ndr). Un processo di pace endogeno, come quello che sta coinvolgendo Etiopia ed Eritrea, con l'aiuto di paesi arabi, è dunque una riconciliazione che può avere positivi su tutto il Corno d'Africa. E se questo nuovo quadro porterà a un'evoluzione interna all'Eritrea, ecco cadere una ragione dell'emigrazione di massa. Tutto ciò potrebbe poi essere un primo passo, avere un effetto positivo, per la stabilità del Sud Sudan, dopo oltre vent'anni di guerra. Cosa intende fare il governo italiano, mentre fa la voce grossa coi migranti, per aiutare questo processo di pace? E invece il ministro dell'Interno non ha fatto nemmeno un tweet sulla pace tra Addis Abeba e Asmara…».

La risposta politica dei governi europei, per Raffaelli, dovrebbe essere questa: «aiutare i Paesi africani a finalizzare i processi di pace che sono la conditio sine qua non per garantire investimenti e migliorare le condizioni di vita delle popolazioni. Essere i primi partner per aiutare e supportare questi percorsi, avere un ruolo attivo nei processi di pace. Questo sarebbe auspicabile in diversi contesti, dalla Somalia al Congo, al Centrafrica, fino al Sahel dove la risposta occidentale è invece stata fino ad ora una risposta prevalentemente di tipo securitario e non politico. Non solo, perché lavorare per eliminare i conflitti è anche una strategia fattiva per ridurre drasticamente il commercio di armi».

E una volta fatta la pace, per così dire?

«C'è un problema di crescita, anche là dove si creano condizioni di uscita dai conflitti armati, in Africa. Il continente ha fatto passi in avanti in questo senso, e ad esempio il mercato interno è in forte crescita, le rimesse della diaspora ammontano a tre volte gli aiuti pubblici allo sviluppo, si sta formando una classe media, ma è un processo agli inizi. Quello che i nostri governi dovrebbero fare è rafforzare tutte le condizioni che possano creare un mercato più equo e giusto, aiutare le società civili, stimolare una governance più trasparente e partecipata, modificare le ragioni di scambio tra UE e paesi africani.

Allargare progetti come Everything but arms (un'iniziativa commerciale dell'Unione europea adottata nel 2001 per dare ai paesi meno sviluppati pieno accesso, esente da dazi, per le esportazioni verso l'UE diverse da armi e da armamenti, ndr), favorire l'esportazione e rafforzare il mercato interno: il vero salto di qualità l'Africa lo potrà fare quando il mercato continentale diventerà reale e forte " un obiettivo che sembrava utopico fino a pochi anni fa e che è stato sancito dall'Unione Africana, si tratta di una svolta fondamentale. L'Europa, rispetto al mercato unico africano - conclude Raffaelli - potrebbe ad esempio aiutare a creare le infrastrutture, il famoso piano Marshall per l'Africa, di cui si parla da tempo senza che si concretizzi nulla, potrebbe puntare proprio su questo».