Il Sud Sudan, nato il 9 luglio 2011 sotto una pioggia di speranza e promesse, è ancora oggi il Paese più giovane del mondo. Frutto di un referendum che ha posto fine a decenni di guerra civile, il suo obiettivo era chiaro: autodeterminazione, dignità, servizi per i suoi cittadini. Ma quattordici anni dopo, quel sogno sembra offuscato da una realtà fatta di tensioni sociali, mancanza cronica di fondi, disservizi sanitari e istituzionali.

In questo contesto intervistiamo Moshin Ranathunga, Responsabile dei Programmi di Amref Health Africa in Sud Sudan – in questi giorni in visita alla sede italiana di Amref Health Africa – testimone diretto della resilienza del popolo sud-sudanese e dell’urgenza di un cambiamento reale.

9 luglio: che significato ha questa data per il Sud Sudan?

Il 9 luglio è il Giorno dell’Indipendenza, quello in cui il Sud Sudan ha finalmente coronato la sua aspirazione a essere un Paese libero. Fu il giorno in cui venne firmato l’accordo di pace e sancito il risultato del referendum. È uno dei giorni più significativi per il Sud Sudan, il Paese più giovane del mondo. Quella giornata fu indimenticabile: Juba era una festa. Tutti celebravano la fine di anni di guerra, la nascita di un Paese libero. C’era speranza, c’era vita, c’era un futuro da immaginare. Le persone non combattevano per denaro o potere: l’unica motivazione era essere liberi. Ricordo l’energia, le danze, le bandiere: un popolo che finalmente si sentiva padrone del proprio destino.

Cosa resta oggi di quella grande speranza?

All’inizio c’erano energia, fiducia, voglia di costruire: scuole per i figli, ospedali per le mamme, servizi pensati per i bisogni reali della popolazione. La speranza era che il Sud Sudan potesse costruire un futuro diverso, libero da un sistema autoritario come quello di Khartoum, che imponeva cosa fare, quando e come.
Ma 14 anni dopo, quelle speranze si sono affievolite. Il Paese immaginato allora non si è realizzato e molte delle promesse dell’indipendenza sono rimaste lettera morta. Le scuole, gli ospedali, i servizi – tutto ciò che doveva essere "nostro" – è rimasto incompleto o irraggiungibile
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Il Sud Sudan è in pace?

Tecnicamente non c’è una guerra aperta, ma la situazione è estremamente fragile. Il Sud Sudan è un Paese complesso: alcune aree sono sicure, ma le tensioni stanno aumentando.
Basti pensare alle conseguenze del conflitto in Sudan: il Sud Sudan ha accolto più di un milione di rifugiati in fuga dalla guerra, pur dovendo fare i conti con milioni di propri cittadini ancora segnati da decenni di instabilità e carenza di risorse. Non c’è una guerra tra comunità, ma cresce la frustrazione verso il sistema e l’indifferenza delle istituzioni. Le elezioni democratiche sono state posticipate più volte – l’ultima al 2027 – e molte persone cominciano a dubitare che vedranno mai un vero cambiamento.
I lavoratori pubblici non percepiscono lo stipendio da oltre 14 mesi.

Qual è l’impatto dei tagli agli aiuti internazionali?

 Il Sud Sudan è nato con il sostegno stabile della comunità internazionale, in particolare degli Stati Uniti. Gli aiuti USAID sono stati essenziali per ogni singolo progresso fatto nel Paese. L’OMS e il Ministero della Salute hanno potuto funzionare grazie a fondi coperti per l’80-90% dal governo USA. Oggi quei fondi sono quasi interamente scomparsi. Strutture sanitarie, politiche pubbliche, persino il carburante per i generatori degli ospedali erano garantiti da quei finanziamenti. Ora non più. Le poche ONG che ancora resistono, come Amref, ricevono richieste sempre maggiori, con risorse sempre più limitate. E questo rende tutto più difficile. La frustrazione si è trasformata in rabbia.

Dal punto di vista sanitario, quali sono oggi le principali sfide?

Stiamo ancora lavorando in strutture costruite 30-40 anni fa, durante il regime di Khartoum. Alcune hanno ancora fori di proiettile, altre sono senza tetto, altre ancora sono state spazzate via dalle inondazioni.
In certi villaggi, un centro sanitario è una semplice capanna, o un albero all’ombra del quale si partorisce. Abbiamo centri nutrizionali, programmi vaccinali, parti assistiti – ma tutto con infrastrutture minime. E poi c’è il tema del personale. Gli stipendi dei dipendenti pubblici sono in ritardo di mesi. Amref, come altre ONG, riesce a sostenere il lavoro grazie a piccoli incentivi, ma anche quelli stanno finendo. Come può funzionare un sistema sanitario senza fondi e senza personale?

Ci può fare un esempio?

Un esempio drammatico è la tubercolosi, malattia ancora largamente diffusa nel Paese. Abbiamo perso tutti i fondi per contrastarla, perché erano legati al programma HIV di PEPFAR, che è stato tagliato.
Oggi molte cliniche per tubercolosi e lebbra sono completamente ferme. Alcuni pazienti sono chiusi dentro, senza cibo, senza medicine. Non possono uscire, perché contagiosi, ma non possono neppure essere curati. Eppure, anche piccoli aiuti possono fare la differenza. Il nostro progetto TB Scout and Treat (info sul progetto e le dichiarazioni di SERVImed), sostenuto anche da un’azienda privata italiana, ha dimostrato che con pochi fondi si possono salvare vite.
In Sud Sudan, anche 120 euro possono cambiare un villaggio. Le persone non fanno differenza tra chi porta un’ambulanza e chi porta una scatola di paracetamolo: se fai qualcosa per loro, sei parte della speranza.

Cosa serve oggi al Sud Sudan? E dove vede la speranza?

Serve ancora sostegno, ma anche responsabilizzazione. Il 9 luglio deve diventare qualcosa di più di una ricorrenza simbolica: deve essere un giorno di consapevolezza e azione. Il Sud Sudan, il Paese più giovane al mondo, rischia il collasso. Ma al suo interno c’è una forza viva: operatori locali formati, comunità resilienti, ONG capaci di fare molto con poco.
Se il mondo continua a voltarsi dall’altra parte, la speranza si spegnerà. Ma se insieme agiamo ora, quel giovane Paese può ancora crescere, riprendersi e imparare a governarsi.

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