
Avevamo ottenuto l'ok all'intervista più delicata. Paul, un uomo con problemi psichici era stato trattenuto in arresto, legato ad un albero per molto tempo, ma ora era tornato libero ed aveva accettato di parlare con noi. Sarebbe stata questa, una delle tante interviste da fare in Sud Sudan, per raccontare, da una determinata angolatura, la salute mentale, anche in vista del prossimo 10 ottobre, Giornata Mondiale della Salute Mentale.
Ci aspettava un Paese con una storia a dir poco tormentata. Una guerra durata 22 anni, che poi ha visto il distacco dall'attuale Sudan. La nascita di un nuovo Paese nel 2011 e altre due guerre civili, nel 2013 e 2016. Violenza e insicurezza ne hanno a lungo minato lo sviluppo socioeconomico. Il Sud Sudan è oggi uno dei Paesi più poveri al mondo, con oltre la metà dei suoi circa 12 milioni di cittadini che vivono al di sotto della soglia di povertà.
In un contesto come questo, aggravato da malattie, malnutrizione e molto altro, resta pochissimo spazio alla prevenzione e a alla cura della salute mentale, anche se in Sud Sudan si registra il 4° tasso di suicidio più elevato del continente. Un quinto della popolazione è afflitta o a rischio di sviluppare disagio psicologico o disturbi psichiatrici.

Con in testa questi dati siamo volati da Juba, la capitale, nello Stato dell'Equatoria Occidentale, precisamente nella contea di Mundri dove, già nelle prime ore del nostro arrivo, per ben due volte, abbiamo incrociato Paul. Una, durante la visita all'ambulatorio che accoglie e cura le persone con patologie legate alla salute mentale. Un'altra nel chiaroscuro di una cena lungo la via principale della cittadina, polverosa, e la sua quasi inesistente illuminazione. Sapevamo che a distanza di due giorni lo avremmo incontrato, quindi non gli abbiamo rubato altro tempo.
Intanto, nei giorni seguenti, il lavoro di casa in casa, ci ha riservato continui colpi al cuore, storie durissime. Angoli taglienti di un problema mai considerato a sufficiente. Abbiamo accompagnato Falatiya lungo quel fiume dove, mesi indietro, stava per gettarsi, dopo essere stata abbandonata, rimasta sola con i suoi bambini e i suoi fitti pensieri di porre termine alla propria esistenza. L'abbiamo ripresa mentre guardava il fiume e mentre ne tornava via. Mentre il gruppo di Self Health Plus - intervento sostenuto dall’OMS, dove abbiamo trasformato le parrocchie in centri di ascolto grazie al lavoro di volontari locali, incaricati di identificare nei villaggi le persone in difficoltà - Benjamin ci aveva raccontato del ritorno al piacere di stare in mezzo alle persone, dopo anni in cui quel dolore lo aveva gettato in una depressione profonda e isolato. Ex veterinario, Benjamin, non riesce a raggiungere sua moglie e i suoi figli in Uganda, fuggiti dopo la guerra. Abbiamo incontrato alcune madri che, insieme ai loro figli, ci hanno raccontato delle psicosi, delle notti in prigione e del ritorno alla vita dei loro figli.
Intorno a loro un sistema ben congeniato dal progetto M(H)IND, sostenuto dall'A.I.C.S. (Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo) e dalla Fondazione Stavros Niarchos . Sì, vi è l'ambulatorio dove curare, garantire medicine a chi ne ha bisogno, ma prima di tutto un lavoro immenso, nelle comunità, per far emergere e dare evidenza ad un problema, a cui da oggi, molti, possono dare un nome. In quelle comunità dove operatori ben preparati hanno somministrato migliaia di questionari di screening, per individuare i casi, segnalarli e collegarli ai servizi di cui necessitano. Un "puzzle" ben predisposto che vede insieme Amref Sud Sudan e Amref Italia, Caritas Sud Sudan e Caritas Italiana, Università di Verona e BBC Media Action. Cruciale il lavoro in collaborazione con il Ministero della Salute del Sud Sudan.
Dopo tutti quegli incontri e quelle storie, la sera prima di incontrare Paul, di ritorno dall'ultima intervista, il nostro autista ha fermato la macchina e il collega di Amref Sud Sudan, ce lo ha indicato, da lontano. Era proprio lui, di nuovo legato, di nuovo in prigione. Abbiamo scoperto che dall'ultima volta che lo avevamo visto aveva sofferto di nuovo di episodi psicotici. Abbiamo chiuso il finestrino e siamo ripartiti. Non avremmo potuto ascoltarlo e raccontare la sua storia, attraverso la sua voce, ma i chilometri macinati da un villaggio all'altro ci avevano messo davanti a tante storie. Tante persone che avevano trovato un nome a quel "malessere" e che erano tornate a sperare.