L’Università di Verona è parte della “squadra” che sta dando vita ad un progetto sulla salute mentale in Sud Sudan, che può cambiare la percezione del problema nel Paese stesso e nel mondo. Ne abbiamo parlato con Michela Nosè, professore associato di psichiatra, che svolge attività clinica presso l’Unità Operativa Complessa di Psichiatria dell’Ospedale Policlinico GB Rossi di Verona e collabora, dal punto di vista della ricerca, con il WHO Collaborating Centre for Research and Training in Mental Health and Service Evaluation, del Department of Neuroscience, Biomedicine and Movement Sciences, Università di Verona, diretto dal professor Corrado Barbui.

Può dirci qualcosa sul Centro che ha citato?
Il Centro è riconosciuto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità da diversi decenni e collabora con l’OMS nello sviluppo e nella valutazione di interventi e servizi di salute mentale. Ci occupiamo di ricerca, formazione, capacity building e consulenza ai decisori politici, con un’attenzione particolare all’adattamento degli interventi nei Paesi a basso e medio reddito.

Può raccontarci l’approccio alla salute mentale nei Paesi a basso reddito?
È purtroppo un tema ancora poco trattato. I Paesi a basso e medio reddito dedicano in media appena il 2% del proprio budget sanitario alla salute mentale. Le priorità immediate sono spesso altre – malattie infettive, malnutrizione, emergenze umanitarie – e la salute mentale viene vista come secondaria. Questo produce un enorme “treatment gap”: in molti contesti, più del 90% delle persone con un disturbo mentale non riceve alcuna forma di cura. Eppure, la sofferenza psicologica è profondamente radicata nella vita quotidiana delle persone e condiziona anche gli esiti delle cure fisiche, la possibilità di lavorare, di andare a scuola, di partecipare alla comunità.

Quali le differenze, macro, tra Paesi a basso e alto reddito nelle problemi di salute mentale?
Parlando in termini generali, nei Paesi a basso reddito vediamo un’incidenza elevata di disturbi legati a traumi, guerre, disastri naturali, fame e migrazione forzata. La depressione e i disturbi d’ansia sono molto diffusi, e il suicidio rappresenta un grave problema di salute pubblica: circa tre quarti dei suicidi nel mondo avvengono proprio in Paesi a basso e medio reddito. Infatti Il 79% dei suicidi si registra nei Paesi a basso e medio reddito, ma è in quelli a reddito più alto che si rileva il tasso di suicidio più elevato: 11,5 ogni 100mila abitanti. Nei Paesi ad alto reddito le patologie sono simili, ma con caratteristiche diverse: c’è una maggiore attenzione a diagnosi come i disturbi dell’umore, i disturbi da uso di sostanze, i disturbi alimentari. La grande differenza sta però nelle risorse disponibili: nei Paesi ad alto reddito esiste una rete di servizi strutturata, mentre in molti Paesi africani c’è un numero irrisorio di psichiatri, psicologi o servizi dedicati.

Quali sono gli studi significativi di riferimento?
Un lavoro fondamentale è stato condotto in Uganda su donne rifugiate sudsudanesi, pubblicato su Lancet Global Health. Si è dimostrato che un intervento molto semplice, il Self-Help Plus dell’OMS, poteva ridurre significativamente i livelli di stress e prevenire l’insorgenza di disturbi mentali. Questo studio ha ispirato molte delle nostre attività, perché ha mostrato che con risorse minime e operatori non specialisti si può avere un impatto reale sulla salute mentale delle comunità più fragili

Può darci dei dati sulla salute mentale in Africa?
A livello africano il quadro è critico: mediamente c’è uno psichiatra per ogni milione di abitanti, con enormi variazioni da Paese a Paese. La spesa pubblica per la salute mentale resta marginale e lo stigma è ancora molto forte. In Sud Sudan la situazione è ancora più drammatica. Uno studio a Juba, condotto prima della guerra civile del 2013, mostrava prevalenze altissime: 36% di
Disturbo da Stress Post-Traumatico e 50% di depressione. I nostri dati preliminari dal progetto M(H)IND confermano la gravità: tra oltre 4.000 partecipanti, circa un terzo ha riportato pensieri suicidari nelle due settimane precedenti l’assessment.

Quale la relazione tra salute mentale e determinanti sociali/ambientali?
La salute mentale non è solo una questione clinica, ma strettamente legata ai determinanti sociali. Guerre, violenze, sfollamenti forzati, insicurezza alimentare e povertà estrema incidono profondamente sul benessere psicologico. Nel nostro studio, per esempio, i giorni senza cibo sono risultati uno dei fattori più predittivi di sintomi depressivi e di scarsa risposta agli interventi. Questo dimostra quanto salute mentale e condizioni materiali siano inseparabili. In generale povertà, insicurezza alimentare, spostamenti forzati e conflitti aumentano stress, depressione e rischio suicidario.

Ci sono progetti simili a M(H)IND?
Esistono altri studi su Self Health Place in contesti umanitari, ma M(H)IND è unico per vari motivi: è il primo intervento di questa portata in Sud Sudan, coinvolge direttamente sia il sistema sanitario che le parrocchie come luoghi di comunità, e combina valutazione di efficacia con valutazione di implementazione. Non si tratta solo di “se funziona”, ma anche di “come funziona in questo contesto specifico” e “come può diventare parte integrante del sistema locale”.

Qual è il ruolo dell’Università di Verona?
Siamo Co-lead scientifico. Ci occupiamo di metodologia, training e supervisione dei valutatori locali, analisi dei dati e disseminazione. Le attività sono svolte come WHO Collaborating Centre in partnership con Amref, Caritas e Ministero della Salute del Sud Sudan.

Gli obiettivi finali e le evidenze attese di M(H)IND?
Vogliamo dimostrare che M(H)IND è un intervento efficace e implementabile in un contesto tra i più complessi al mondo. Se i risultati saranno confermati, potranno servire da modello per altri Paesi a basso reddito. Al mondo accademico porteremo dati solidi di efficacia e implementabilità; ai decisori

C'è un problema di carenza di investimenti immagino.
Non ci sono investimenti sufficienti a livello nazionale e internazionale. La salute mentale resta fanalino di coda nei budget sanitari, nonostante l’OMS e numerosi rapporti abbiano sottolineato il ritorno economico e sociale degli interventi in quest’area. Portare dati concreti, come quelli che stiamo raccogliendo, serve anche a fare advocacy per maggiori risorse.
I dati dei primi 500 partecipanti sono chiari: distress e sintomi depressivi diminuiscono in modo significativo, il benessere aumenta, e anche i pensieri suicidari si riducono, pur non in maniera statisticamente significativa. È una prova che M(H)IND funziona anche in un contesto estremamente difficile. L’analisi completa, su oltre 4.000 persone, sarà pronta entro la fine del 2025.

Vuole aggiungere un’ultima considerazione?
Vorrei sottolineare che la salute mentale non è un lusso per i Paesi ricchi, ma un diritto universale. Non si può pensare a sviluppo, pace e benessere se non si affrontano i traumi, lo stress e la sofferenza psicologica di milioni di persone. M(H)IND dimostra che è possibile portare soluzioni semplici, scalabili e basate sull’evidenza anche nei contesti più fragili, se si lavora con le comunità locali e in collaborazione internazionale