Gravi e molto tristi sono i fatti del 2 giugno - di Peschiera del Garda e del treno tra Peschiera e Milano – che ci spingono oggi a una forte condanna, ma anche a porci una serie di domande.

La condanna è per tutti gli atti di violenza, in ogni forma, riscontrati in quelle ore davvero tristi e raccapriccianti.

Vedere giovani scagliarsi contro altri giovani e ledere l'intimità e la dignità dell'altro fa male. Sia coloro che sono stati colpiti, sia coloro che hanno subito violenza sono tutti nostri ragazzi, il futuro del nostro Paese.

Gli uni vanno difesi, protetti e accompagnati nel recupero di una normalità.

Gli altri vanno condannati per le loro azioni, distinguendo però fra chi aveva intenzioni di festa e chi invece di disordine e violenza.

Non esiste un noi e un loro.

Non possiamo fare distinzioni e costruire divisioni, partendo da un'appartenenza etnica o da un'origine.

Viviamo nelle stesse scuole, nelle stesse città.

Abbiamo il dovere di non alimentare altre divisioni, di non unire come puntini i fatti di cronaca, solo perché poco distanti temporalmente, per disegnare un nemico.

Di fronte a fatti del genere sono molti i punti interrogativi, gli stessi che ci fanno venire in mente la rabbia che abbiamo riscontrato nelle storie raccolte per il rapporto l’Africa Mediata, che portiamo avanti da tre anni con l'Osservatorio di Pavia e con il quale stimoliamo il mondo dell’informazione e dei media ad adottare una narrazione più ampia e onnicomprensiva, dell’Africa “là” e dell’Africa “qua”, quindi anche degli afrodiscendenti in Italia.

Quest'anno abbiamo raccolto le testimonianze di ragazze e ragazzi afrodiscendenti, di seconda generazione, la cui identità è messa in discussione ogni giorno non solo dai loro pari, nella società, ma anche dalla legge.

Uno scollamento tra il sentirsi italiani e l’essere percepiti altro, solo per il colore della pelle. Uno scollamento che genera dolore e rabbia.

Rabbia che mai, ci teniamo a ribadirlo, mai va fatta sfociare in violenza, ma rabbia che ci deve far interrogare.

Proprio nella nostra indagine, lanciata lo scorso 25 maggio in occasione dell’Africa Day, si notava il contrasto forte tra un'Italia sportiva (lo sport era un focus dell'indagine) che innalza a eroi afrodiscendenti come Marcell Jacobs, Paola Egonu, Danielle Madam e Eseosa Fostine Desalu ma che vede una legge sulla cittadinanza languire da anni in Parlamento.

Uno scollamento tra l'immagine che hanno dato le Olimpiadi, con le vittorie dei nostri atleti e con Paola Egonu portabandiera del CIO, e la società reale. Una distanza che fa pensare che l'afrodiscendente, i ragazzi di seconda e terza generazione, ci piacciono e siamo disposti ad accettarli a patto che siano vincenti, che siano forti.

Dove sono gli altri che non hanno la forza, la tenacia o la fortuna di arrivare a quei livelli di popolarità?

Che gare, che sfide quotidiane affrontano, in una delle fasi più delicate della loro vita, l'adolescenza?

Possiamo accendere una luce su di loro e chiedere un maggiore impegno della politica, della scuola, di tutte le istituzioni e di tutta la società civile, affinché la quotidianità della società italiana si avvicini sempre di più a quell'immagine di Jacobs, Desalu, Patta e Tortu, avvolti tutti nel tricolore della bandiera italiana.

Facciamoci guidare dallo sport, e dai bambini, che senza alcuna distinzione di origini crescono insieme nelle nostre scuole.

Se oggi, dopo questi tristi fatti, non ci poniamo le giuste domande, se non cogliamo l’opportunità che abbiamo di promuovere una vera integrazione a margine di questa triste occasione, rischiamo solo di creare "altri mostri", limitandoci a collegare fatti di cronaca che creeranno sempre distanze incolmabili.

E in questa lotta, i media, lo sappiamo, hanno un ruolo essenziale: possono contribuire a costruire o abbattere pregiudizi.

Ora più che mai, anche i media siano protagonisti, diventando strumento di comprensione, rispetto e integrazione, cercando di raccontare anche quell’Africa “qua” che non distrugge ma crea, insieme.