Dove sta la città?
Sapevo che questi giorni sarebbero stati una violenza sulla mente e sul cuore. "Addis Abeba…Dove sta la città?" mi chiede la persona in viaggio con me, Ferdinando Giglio - segretario generale Fondazione Prosolidar. Io quasi automaticamente senza pensare rispondo che è questa la città. È sempre lui a farmi notare come solitamente la baraccopoli sia il prolungamento innaturale ma forse logico di una città, mentre Addis è tutta una baraccopoli.Solo in quel momento mi rendo conto dello schermo che mi sono costruita addosso per non soffocare nel pensiero terribile che certi giorni attanaglia quelli che fanno il mio lavoro e cioè…"ma che ci proviamo a fare? non la cambieremo mai questa situazione". Ci avviamo in una stradina, qui possiamo camminare a piedi senza timore, un'esperienza nuova in una baraccopoli. Non c'è nulla che rimandi il mio pensiero alle parole pericolo e criminalità.
Arriviamo in una scuola secondaria, 1030 studenti tra i 14 e i 18 anni, qui abbiamo realizzato 7 latrine e 2 docce. Non oso immaginare quale fila possa crearsi nella pausa delle lezioni e chiedo di quante ancora ne hanno bisogno, ma la project manager mi risponde che qui per ora va bene così e che ci sono comunità che hanno bisogni più urgenti. Più urgenti di 1030 ragazzi con 7 latrine? Il mio pensiero batte nella testa. Cerco di reprimerlo, di sorridere, di darmi delle spiegazioni, ma la voce che ho nella mente continua a dirmi che è una battaglia durissima.
Dignità nella disperazione
Salgo in macchina e ancora per qualche ora visitiamo strutture, incontriamo persone, camminiamo tra la lamiera e i tentativi di botteghe di sartoria, macellai totalmente scellerati o disperati, bambini che giocano a palla mentre un gruppo di asini indisturbato attraversa le stradine. Insieme alle strutture che comprendono servizi igienici, docce e lavandini, qui diamo avvio a piccoli negozi per la vendita del sapone e delle ciabatte. Costano talmente poco da essere accessibili anche qui. "Con i soldi ricavati costruiremo un altro negozio e magari un'altra struttura igienica" ci dicono. Sorrido e penso che questo sia davvero un bel progetto sostenibile, che non finisce qui, che potrà andare oltre noi. Ma quella voce non smette di martellarmi il cervello. Mi giro e vedo i carri di Amref che, baracca dopo baracca, recuperano i rifiuti, li differenziano e li portano nella discarica principale della città. "Wow, grandioso!!". La voce resta in silenzio nella mia testa. Penso che la dignità è il bene più prezioso di un essere umano e anche nella disperazione più totale si tenta di costruire una vita e un luogo in cui vivere che siano almeno vagamente degni.Il sorriso di una madre
"Chi sono io per smettere di credere?" Inizio a chiedermi. Mentre dentro di me avviene questa lotta poso lo sguardo su un bimbo, avrà l'età della mia Ginevra, si regge da poco sulle sue gambe. Indossa un pantaloncino e una maglietta rossi, indossa delle ciabattine e mi sembra pulito. Non è vestito di stracci, non ha le mosche agli occhi, non piange dalla fame, come spesso ci vengono presentati i bambini africani. No lui è serio, mi guarda, lo guardo e gli sorrido col sorriso di una madre che sente propri tutti i bambini, ma lui continua ad essere serio. É come se avesse letto la lotta che sta avvenendo dentro di me, come se avesse capito che forse sarei anche pronta a mollare e a non crederci più. Apre la porta di una doccia e si lascia accarezzare con la dignità più incredibile che io abbia mai visto. Lui non è un povero bimbo africano in una baraccopoli, lui è un bimbo a cui spetta lo stesso possibile bel futuro di mia figlia. Lo desidera questo futuro e non lo otterrà elemosinando un aiuto, ma cogliendo l'occasione di un progetto che non lo farà ammalare, che lo farà essere sempre pulito, che permetterà ai suoi genitori di guadagnare qualcosina. Lui ha diritto al suo futuro e non mi sta ringraziando, né mi sta impietosendo, no, mi sta mettendo in soggezione perché lui ha visto la mia debolezza e sa che io ho riconosciuto la sua forza.Ne vale la pena?
Quegli occhi non mi lasciano nelle ore successive finché non mi arrendo e non mi dico sinceramente che ho paura e che sarebbe tanto più semplice mollare, tornare dalla mia famiglia, chiudermi nei problemi del mio mondo e ripetermi che ci sto provando, ma che tanto le cose non cambieranno. So che non è questo che voglio da me e che in fondo sono tornata in Africa per sfidare me stessa. Semplicemente non posso chiudere gli occhi davanti gli occhi di quel bambino, non posso mentirmi dicendo che non serve, perché a lui la vita è veramente cambiata.Ammetto che la mia è solo una barriera per non entrare in empatia con esseri umani tali e quali a me, una barriera che definisce bene i confini del tu e dell'io, per non arrendermi all idea di essere parte di un tutto e di sentire dolore nell'anima e sulla pelle, di sentirmi impotente quello si, ma anche responsabile della vita di tutti questi figli di madri come me. La voce continuerà a sedurre la mia mente, ma ha degli ossi duri con cui scontrarsi alla fine di questa giornata: quelle spie di speranza che ho visto sparse nelle strade in cui con Amref stiamo operando. Non ce la farà a sopprimere l'immagine della donna che mi dice che quelle 7 latrine e 2 docce sono una risposta precisa per quella parte di baraccopoli. Non ce la farà a macchiare la mia gioia di quando ho visto apparire il carretto della raccolta rifiuti. Tanto meno la dignità di quel bambino. Ormai sono crollate le sovrastrutture e non posso far altro che continuare a lavorare - con il piglio e l'orgoglio della realtà che qui rappresento, Amref - per cambiare forse non l'intero mondo, ma il mondo di un singolo bambino. Varrebbe la pena comunque. Vale certamente la pena.
Sara Proietti
Manager Relazioni con Aziende
Amref Health Africa - sez. Italia