Andrea Bollini, operatore di Amref Health Africa, ci racconta come il Kenya, uno tra i Paesi considerati maggiormente a rischio dall'OMS, dove risiede il quartier generale di Amref, sta affrontando la lotta contro la diffusione del COVID-19.
Il Kenya sta facendo test diagnostici?
Il primo caso di COVID-19 in Kenya è stato rilevato il 12 marzo del 2020 e seguito da un costante aumento dei contagi. Dal 12 marzo ad oggi, il Kenya ha fatto circa 44.000 test, con una media inferiore ai 1.000 test giornalieri. Non sono tanti, pertanto non c'è una risposta certa rispetto all'attendibilità dei numeri. Ora come ora, non si possono fare ipotesi azzardate rispetto al futuro del Paese.
Come stanno reagendo le comunità? Quali sono gli stati d'animo più diffusi in questo momento?
Gli stati d'animo delle persone hanno subito nel tempo diverse variazioni. Inizialmente, la popolazione keniota ha reagito in maniera molto diligente agli appelli del governo, e la paura era comune a tutti. La consapevolezza di ciò che è successo in Cina, in Italia, e successivamente nel resto del mondo ha sicuramente contribuito enormemente. I kenioti hanno una gran stima dell'Italia, soprattutto a livello sanitario, considerando ciò che l'Italia ha fatto, in Kenya, nel settore. Con il passare del tempo però la maggior parte delle persone si è rasserenata, a seguito delle errate proiezioni di diffusione del virus divulgate dal governo Keniota, conseguenti al limitato numero di tamponi a disposizione. Inoltre, moltissime epidemie hanno già segnato la storia africana, e questo ha fatto sì che la popolazione sviluppasse un rapporto diverso con la morte. Ciò non migliora le condizioni sanitarie attuali del Kenya o del continente, ma forse riesce, in parte, a spiegare le reazioni delle persone.
Quali sono le conseguenze economiche del COVID-19 in Kenya?
Le persone che vivono di sussistenza alla giornata, in Kenya, sono 4 su 5. Questo significa che su 5 abitanti, 4 devono arrivare a fine giornata guadagnandosi il sostentamento economico il giorno stesso, e nella maggior parte dei casi questo è reso possibile da lavori casuali, non da impieghi regolari. In una condizione di stallo economico questa categoria, vastissima, va incontro a una serie di gravi difficoltà finanziarie. E a quel punto subentrano anche delle tensioni sociali e politiche notevoli. Un esempio si può notare nell'aumento dei crimini riportato dai giovani kenioti: il 12% dei giovani intervistati recentemente da Amref ha riferito un aumento dei furti nel proprio quartiere. La paura e la povertà legate al COVID-19 possono generare molti danni, di cui non conosciamo l'entità.
Cosa sta facendo Amref in Kenya?
Amref Health Africa in Kenya sta contribuendo enormemente alla lotta contro la diffusione del COVID-19 nel Paese. In primo luogo, Amref è l'ente erogatore della formazione di operatori sanitari in ambito COVID-19 nel Paese. Questo significa che esiste una circolare del governo keniota che dichiara che tutti gli operatori sanitari devono partecipare al corso di formazione proposto da Amref. Altri sforzi e contributi di Amref includono la mobilitazione delle risorse, l'implementazione di attività a promozione della salute e di attività di sensibilizzazione e comunicazione dei rischi. Inoltre, in Kenya, Amref utilizza la tecnologia mHealth Leap per formare gli operatori sanitari. Ad oggi, grazie alla piattaforma, sono stati raggiunti oltre 54.000 operatori sanitari in oltre 30 contee. Amref ha collaborato con il Ministero della Salute e continua a collaborare con il governo, per sfruttare le capacità reciproche e rafforzare la risposta all'emergenza. Infine, l'ultima iniziativa di Amref, avviata il 19 maggio anche grazie al sostegno della Fondazione Coca-Cola e di Fondazione Aurora, è la produzione di dispositivi di protezione individuale (DPI) di alta qualità, nel Dagoretti Fashion and Design Centre di Amref, a Nairobi.
Per quanto riguarda la produzione delle mascherine, cosa ci puoi dire?
Avevamo a disposizione delle vecchie macchine da cucire e, allo stesso tempo, nel Paese c'era un eccesso di domanda di DPI. Ci siamo quindi messi in contatto con il Ministero della Salute (MOH) del Kenya, per definire gli standard di DPI commercializzabili e abbiamo avviato il progetto. Al momento, 25 persone partecipano attivamente alla produzione di maschere chirurgiche nel rispetto delle norme dei Dispositivi Medici. Prevediamo di vendere i DPI a prezzi agevolati, con sconti fino al 50% all'interno di Dagoretti, e di lavorare con gli operatori sanitari come principale canale di distribuzione. Al momento, abbiamo una domanda di circa 500.000 pezzi. La speranza è che la distribuzione si estenderà anche oltre i confini nazionali, raggiungendo tutto il mercato africano, con l'ambizione di arrivare a produrre circa 10 milioni di articoli. Inoltre, l'iniziativa supporta giovani donne e ragazze degli insediamenti informali intorno a Nairobi, coinvolte nella produzione.
Cosa ti ha fatto capire questo periodo sull'Africa e/o sull'Italia?
Le reazioni e le dinamiche che hanno caratterizzato questo periodo mi hanno fatto capire che tutti gli esseri umani sono molto simili tra loro. Le sensazioni di alcune persone, come la rabbia o la paura, contrapposte a sensazioni di indifferenza e di ostilità, hanno creato tensioni sociali in tutto il mondo, di entità o di carattere diversi. Ma in fin dei conti siamo tutti uguali. E la cosa che più mi ha toccato, di questo periodo, è stata l'autentica e genuina solidarietà che l'Italia ha ricevuto, senza saperlo, da parte del Kenya. Se avessero avuto gli strumenti per farlo, ho avuto la sensazione che ci avrebbero mandato dei soldi. È un Paese, un continente, che ci ha sempre trattato bene, e se c'è qualcosa che questa tragedia può insegnarci, è a voler più bene all'Africa.