Le vaccinazioni in Africa sembrano procedere a ritmi lenti.

Il perché lo spiega il Dott. Githinji Gitahi, Global CEO di Amref Health Africa, nonché uno dei massimi esperti in merito di sanità pubblica nel continente africano. “Il primo motivo è la scarsa disponibilità dei vaccini”, spiega il Dott. Gitahi. “Nonostante l’impegno della GAVI Alliance (una cooperazione di soggetti pubblici e privati il cui scopo è quello di migliorare l’accesso all’immunizzazione in 92 Paesi a basso reddito di cui 27 si trovano nell’Africa Sub-Sahariana), le circa 29,1 milioni di dosi di vaccino anti-COVID-19 finora rilasciate al continente africano sono insufficienti per una popolazione di 1,3 miliardi di persone. Considerando che ogni persona necessita di due dosi di vaccino, l’Africa avrebbe bisogno di circa 2,6 miliardi di dosi per vaccinare tutti”, dichiara.

“Il secondo motivo è economico”, continua. “Per vaccinare un singolo individuo servono circa 15 dollari, quindi quasi la metà della spesa annuale per l’assistenza sanitaria pro capite di un paese a basso-medio reddito come il Kenya. I governi africani non acquistano i vaccini perché non possono permetterselo, ma le cure contro le pandemie dovrebbero essere un bene pubblico globale, accessibile a tutti. Per questo ritengo assolutamente necessario che vengano rimossi i brevetti sui vaccini contro il Coronavirus, come richiesto dal Sud Africa”.

“Il terzo motivo”, dichiara, “risiede nell’esitazione vaccinale di una larga fetta della popolazione nei confronti di vaccini che non conoscono abbastanza. Credo che l’accettazione del vaccino sia direttamente proporzionale al livello di fiducia che le persone provano nei confronti del proprio governo. In Ruanda o in Ghana, per esempio, gran parte della popolazione ha un approccio positivo e fiducioso nei confronti dei vaccini, mentre la mancanza di fiducia della popolazione keniota nei confronti del proprio governo è stata direttamente tradotta in esitazione vaccinale”, conclude.

Tuttavia, l’esitazione vaccinale è superabile. “In questi casi”, dichiara infatti il Dott. Gitahi, “credo sia necessario intraprendere percorsi di sensibilizzazione attraverso figure di riferimento della comunità: se le persone non si fidano del proprio governo, forse si fidano di un responsabile della sanità, o del loro leader religioso locale, o magari di un operatore sanitario di comunità. Loro possono convincere le comunità della necessità di affidarsi al vaccino, qualunque esso sia”. In Africa, il 95% dei vaccini a disposizione sono Oxford AstraZeneca, “soprattutto per una questione logistica”, spiega. “Il vaccino Pfizer, infatti, richiede una conservazione a -70 gradi, e ciò rende sua distribuzione e stoccaggio impossibile nel continente africano”.

Il COVID-19 ha indubbiamente colpito l’Africa, tuttavia, la percezione è che l’ecatombe che molti avevano previsto, non c’è stata. Il Dott. Gitahi spiega però che “non è così. Il COVID non ha “risparmiato” l’Africa”. Bisogna infatti considerare diversi fattori. “Primo fra tutti”, spiega “quello demografico. In Italia, l’età media è di 45 anni, mentre in Nigeria, lo Stato africano più popoloso, è inferiore a 18 anni. È quindi ipotizzabile che una percentuale elevata di casi sia, in Africa, di lieve entità per la giovane età della sua popolazione. Inoltre, il numero dei casi di soggetti infettati da Coronavirus è molto probabilmente sottostimato, sia per mancanza di una rete diagnostica all’altezza, sia perché la bronchite e la polmonite (due delle cause principali di morte nel continente) condividono sintomi con COVID-19 che rendono ancora più difficile il lavoro diagnostico”.

Per contenere il contagio, gran parte dei Paesi del mondo implementa misure restrittive. “In Africa”, spiega il Dott. Gitahi, “le misure restrittive più comuni sono il coprifuoco, l’obbligo della mascherina e il divieto di assembramento, tuttavia, un totale lockdown è impossibile, perché l’80% dell'economia africana si basa su lavori informali e moltissime persone vivono di sussistenza alla giornata. Il lockdown le condannerebbe a morire di fame”.

“Anche le scuole non possono essere chiuse” dichiara. “Attualmente, in Africa oltre 15 milioni di bambini frequentano la scuola primaria e secondaria, l’equivalente dell’intera popolazione della Somalia. Per tutti loro la scuola è notoriamente una struttura di protezione da abusi di ogni genere, soprattutto per le bambine, che non possono altrimenti sottrarsi alle mutilazioni genitali femminili (FGM) o ai matrimoni forzati e precoci”.

Il Dott. Gitahi conclude su una nota positiva. “Posso dire che la situazione continua ad essere molto grave e probabilmente lo sarà per molto tempo ancora, ma voglio rimanere ottimista”, spiega. “Ci sono segnali positivi: a livello internazionale posso dire di aver notato che la solidarietà globale è in aumento e che stiamo assistendo ad un crescente multilateralismo. A livello locale, il continente ha aumentato le proprie capacità sanitarie sotto tutti i punti di vista, formando migliaia di nuovi operatori sanitari, costruendo infrastrutture e molto altro. Credo che queste siano lezioni di cui ogni Paese africano farà tesoro in futuro”.


Questa intervista fa parte de “La parola all’Africa”, un numero di VITA esclusivamente a firme africane.