
Negli occhi due immagini.
Una, il bambino che scende da una nave, appena salvato in mare, e quell’operatore che gli tappa le orecchie per non fargli sentire le urla di chi vorrebbe respingerlo lontano, insieme agli altri migranti.
L’altra il Papa che, in Vaticano, “ci ringrazia per un progetto lungimirante. Un progetto che vuole unire i territori di confine, punti nevralgici della migrazione”.
Sono queste le istantanee che si stagliano dalla chiacchierata con Roberta Rughetti – Direttrice Programmi di Amref Health Africa-Italia.
Due facce che convivono nella stessa medaglia, quando affrontiamo il tema della migrazione. Poi però l’affondo su una lotta al COVID-19 che, per fortuna, ci vede tutti uniti, ma che offre una riflessione amara: come, cambiando latitudine – quando al centro della “bufera” non ci sono i Paesi più potenti al mondo – ci si possa permettere di decelerare o dimenticare malattie che sarebbe facile sconfiggere.
Roberta, il 10 settembre eri in udienza dal Papa con la delegazione del progetto “Snapshots from the Borders”. Raccontaci qualcosa dell’importanza di questa visita.
Il progetto “Snapshots from the Borders” ha come capofila il Comune di Lampedusa e Linosa e ha l’obiettivo di creare una rete tra i territori di confine, che sono i punti nevralgici della migrazione.
Il Papa ha definito questo progetto “lungimirante”. Dell’udienza, ciò che più mi ha colpito, è un forte richiamo alla cultura dell’incontro, per uscire dall’isolamento. Poi – cosa grandiosa – Papa Francesco non si è messo a darci insegnamenti, ma ci ha ringraziato. Ha ringraziato noi.
Perché il suo ringraziarvi ti ha colpito?
Già la notte prima dell’udienza ho pensato a quanto lo stimassi. Ero emozionata.
Al netto di tutte le considerazioni religiose – preciso che Amref è un’organizzazione aconfessionale – il suo coraggio e la capacità dell’ascolto dei tempi sono due grandi virtù.
Il suo non è solo un operato che si concentra sulla spiritualità e sulla religione, ma su una missione etica.
Il Papa nel suo discorso ha anche detto: “siamo consapevoli che in diversi contesti sociali è diffuso un senso di indifferenza e perfino di rifiuto”. Come interpreti questo suo messaggio?
Mi viene in mente l’immagine di qualche giorno fa. Un operatore che tappa le orecchie ad un bambino che, salvato dal mare, stava scendendo da una imbarcazione, mentre sulla banchina qualcuno gli urlava contro la sua rabbia. Un’immagine di una drammaticità spaventosa.
Paradossalmente credo che non dobbiamo smettere di parlare anche a chi stava urlando. La perdita di preoccupazione – di empatia – verso quel bambino che ha intrapreso un viaggio verso un altro Paese non può non interrogarci.
Abbiamo il dovere di un recupero di umanità, anche da chi si sente minacciato da quello sbarco.
Tutti coloro che erano idealmente su quella banchina sono, a mio avviso, vittime di una strumentalizzazione del fenomeno migrazione, che disegna una percezione che non si nutre di dati ed analisi puntuali e veritiere. Solo strumentale.
Oltre un anno fa, a Lampedusa, Amref ha voluto mostrare ai colleghi – operatori africani – alcuni tristi simboli della traversata dei migranti in mare, come le barche con cui arrivano donne e uomini del loro stesso continente e il cimitero. Cos’è cambiato da quel giorno?
Tutto. Molti dei nostri colleghi, persone che operano in campi per rifugiati, in strutture sanitarie, che gestiscono progetti di salute con migliaia di persone, sono partiti da Lampedusa con un colpo durissimo al cuore.
La consapevolezza, il vedere, ha generato cambiamento e mobilitazione. Da quella visita non passa giorno che non ci interroghiamo su come intervenire. Come creare nei giovani la consapevolezza dei rischi, di cosa significhi affrontare una simile traversata.
Lavori da molti anni in questo campo, per “disegnare” progetti che possano essere di supporto alle comunità africane. Tutto questo odio, morti facilmente evitabili, non solo in mare, ma anche per banali ragioni, non ti hanno resa stanca?
No, stanca no. Quando senti che l’impatto del tuo lavoro contribuisce ancora a generare cambiamento – come ci è stato detto qualche giorno fa in relazione ad un progetto dedicato all’acqua e alla salute nella capitale etiope – la stanchezza viene ripagata.
Certo, frustrata sì, quando noto nelle politiche dell’Europa e non solo una certa debolezza e frammentazione.
Il COVID ha catalizzato tutta l’attenzione su di sé. Ci sono rischi che altre urgenze sanitarie, in Africa, siano state messe da parte?
Alcuni Paesi africani hanno dei tristi primati, in quanto a mortalità materna, infantile o nei primi cinque anni di vita.
La paura del contagio e il lockdown hanno spinto molte donne e uomini a non rivolgersi alle strutture sanitarie. Questo non ha fatto altro che accrescere i rischi di cause di mortalità che sarebbero state facilmente evitabili.
Il COVID però ha unito il mondo in una battaglia comune. Non è vero?
Verissimo. Ma se questo da una parte mi conforta, offre l’idea di un mondo che marcia insieme, dall’altra parte mi fa chiedere perché non si possa fare lo stesso quando si cambia latitudine, quando questi problemi coinvolgono popolazioni meno “altisonanti”, diciamo così.
Faccio un esempio: in una piccola parte dell’Africa (Sud Sudan e Uganda) esiste una malattia – la nodding syndrome – che potrebbe essere, se non eradicata, facilmente contrastata. Non servirebbe molto, eppure questa sindrome colpisce in maniera devastante i bambini. Solo guardare la foto di un bambino malato, mette in discussione ogni idea di umanità.
Ebbene di quella sindrome nessuno sa. O in pochi. Nonostante il COVID noi però non abbiamo spento la luce su di essa e torneremo a lanciare un appello, che sia mondiale, che trovi la solidarietà globale.
Come ogni piccolo o grande problema sentito qui o in ogni parte della terra.